Dov'è il mio denaro? Aumenta il divario tra ricchi e poveri |
Fabrizio Pezzani, ordinario di Programmazione e Controllo dell'Università Bocconi di Milano, ha analizzato con grande lucidità l'incidenza della finanza sulla vita reale delle popolazioni. Il suo ragionamento si concretizza dando vita ad una tesi, assolutamente condivisibile, secondo cui l'attuale modello egemone legato alla speculazione può generare soltanto nuova povertà. L'unico rimedio, anche per l'Italia, è tornare all'economia reale, possibilmente prima che sia troppo tardi. Le 85 persone più richhe al mondo detengono un patrimonio pari a quello di 3,5 miliardi di persone, ovvero la metà della popolazione mondiale. Nei paesi di cultura anglosassone, considerati i più rappresentativi della democrazia, le disuguaglianze hanno spaccato le società. Negli USA il reddito dell'1% dei più ricchi è equivalente al 40% del reddito nazionale e il trend sta crescendo: un americano su sei ha bisogno di un buono pasto, la povertà è tornata ai livelli del 1963. Del resto, la crescita del Pil ha un'utilità negativa perché a parità di tassazione aumentano le disuguaglianze dando risorse superflue ai ricchi, sottraendole alla classe media che tiene in piedi il sistema. Nella Silicon Valley, punta di diamante degli Stati Uniti, si trova "The Jungle", il più grande accampamento dei senzatetto del Paese. In questi giorni, Barack Obama, è stato a Roma per confrontarsi con papa Francesco che si è fatto testimone della lotta alla povertà e alla disuguaglianza. Un incontro epocale il cui scopo doveva essere quello di stimolare anche negli USA politiche di sostegno ai ceti meno abbienti. Ma il divario fra ricchi e poveri è notevole anche in Gran Bretagna. Le cinque famiglie più abbienti hanno un patrimonio equivalente a quello del 20% più povero del Paese, eppure là si propongono meno tasse ai più ricchi e tagli al welfare. Anche noi, in Italia, siamo della stessa partita. La società si sta indebolendo e vive le stesse profonde contraddizioni. Secondo gli ultimi dati disponibili (relativi al 2012, forniti dal dipartimento delle Finanze), il 5% dei redditi più alti dichiarati è pari al 22,7% dei complessivi, e il 10% delle famiglie possiede il 46,6% della ricchezza. Come non vedere nella supremazia della finanza la causa di questi squilibri sociali? L'affermarsi della finanza come verità accademicamente incontrovertibile e come scienza esatta si basa su un'ipotesi falsa ma perseguita con lucida determinazione: ha accelerato i processi di concentrazione della ricchezza diventando uno strumento egemonico nelle politiche globali dei governi. Così è diventata un sistema parassitario, una sorta di locusta dell'economia reale, la quale viene spolpata fino al collasso perché la moneta non genera moneta. Si è erosa la tenuta dei sistemi sociali e compromessa la realizzazione del bene comune, diventato secondario rispetto a quello individuale, chi decide, in finanza, non si pone il problema delle conseguenze delle sue scelte che possono distruggere aziende sane e mettere in difficoltà la tenuta di interi paesi. La dinamica finanziaria ha continuato a dettare legge ma ha indebolito socialmente i paesi dove si è manifestata dominante (USA e Gran Bretagna). In queste condizioni è difficile ergersi a paladini della giustizia. L'esito delle tensioni in Siria in modo non bellico ha dato evidenza di questa debolezza contrattuale e ha riportato la Russia di Vladimir Putin a un ruolo da protagonista nei giochi globali. Inoltre, il naturale avvicinamento tra Russia e Germania è nella storia (la grande Caterina era tedesca) e ha contribuito ad evidenziare le difficoltà degli USA nel mantenere una posizione di forza come la vicenda della Crimea ha dimostrato. La finanza dominante comincia, dunque, a scontrarsi con un modello culturale fondato sull'economia reale, a mettere in discussione il suo potere egemonico oltre che il modello sociale da essa generato. Anche i recenti investimenti della finanza americana nel nostro Paese (fondo Blackrock), fatti con inusuale rapidità, non sembrano destinati a creare occupazione ma anzi ad avere un ruolo importante nelle politiche finanziarie del Paese. Ma occorre ricordare che la nostra storia si regge su una tradizione di economia reale e di capitale sociale, non di finanza. Quest'ultima non è nel nostro dna, su quel piano saremo sempre perdenti e dominati. Il vero scontro si giocherà, insomma, nei prossimi anni, nella messa in discussione di un modello socioculturale incardinato su un capitalismo finanziario fine a se stesso che ha generato una crisi sociale e di valori conflittuali. Può essere sostenibile un modello sociale con diseguaglianze e disgregazioni sociali? Può l'economia essere sovraordinata alla società? Può l'economia reale essere un'ancella della finanza? La storia ci dice che non è possibile, ma ancora una volta siamo qui a riprovarci e a rischiare di trovarci davanti al caos, in una sorta di Armageddon. Saremo capaci di capirlo e di sostituire al "bellum omnium contra omnes" (tutti contro tutti, ndb) la collaborazione e il senso antico di "societas"? Questa è la vera sfida che ci aspetta.