La Striscia di Gaza è oggi il teatro di una crisi umanitaria e sociale senza precedenti. Mentre il conflitto israelo-palestinese continua a mietere vittime e distruggere infrastrutture, la popolazione civile vive in condizioni di estrema precarietà, aggravate da un embargo che dura da oltre 15 anni. L’economia è paralizzata, i servizi essenziali al collasso, e la prospettiva di una ricostruzione appare sempre più legata a interessi geopolitici ed economici esterni.
Un’economia strangolata
Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre l’80% dei residenti di Gaza dipende dagli aiuti umanitari. Il tasso di disoccupazione supera il 44%, con punte del 50% tra i giovani. Le attività produttive locali, come agricoltura e pesca, sono fortemente limitate dalle restrizioni israeliane, mentre l’industria è pressoché inesistente.
Il blocco imposto da Israele dal 2007 ha reso impossibile l’importazione di materiali da costruzione, attrezzature mediche e beni di prima necessità. Gaza è di fatto isolata dal mondo, con un’economia di sussistenza che non consente alcuna prospettiva di sviluppo.
Sanità e istruzione: settori al collasso
Il sistema sanitario è in grave crisi. Solo 14 ospedali su 36 risultano parzialmente operativi, mentre mancano farmaci salvavita, attrezzature e personale qualificato. L’accesso all’acqua potabile è limitato, e l’elettricità è disponibile solo per poche ore al giorno.
Anche il settore dell’istruzione è duramente colpito. Oltre 350 scuole sono state danneggiate o distrutte, compromettendo il diritto allo studio per migliaia di bambini. La malnutrizione infantile colpisce più del 50% dei minori, aggravando ulteriormente le condizioni di vita.
Embargo e punizione collettiva
L’embargo imposto da Israele è stato definito da diverse organizzazioni internazionali come una forma di punizione collettiva, vietata dal diritto internazionale. Le restrizioni alla circolazione di persone e merci hanno trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto, dove la povertà e la disperazione sono diventate la norma.
Ricostruzione: opportunità o colonizzazione economica?
I danni materiali causati dai bombardamenti sono ingenti: oltre 170.000 edifici distrutti e 50 milioni di tonnellate di macerie. Il costo stimato per la ricostruzione supera i 40 miliardi di dollari, con tempi previsti fino al 2040.
I principali donatori internazionali includono Qatar, Turchia, Unione Europea e Stati Uniti. Tuttavia, secondo fonti diplomatiche, molti dei fondi promessi non sono mai stati erogati. La supervisione della ricostruzione è affidata a enti esterni, con il rischio che Gaza diventi un polo economico controllato da interessi stranieri.
Il business delle armi: il lato oscuro del conflitto
Dietro il prolungarsi del conflitto si cela un mercato miliardario. Israele è tra i principali esportatori mondiali di armamenti, con aziende come Elbit Systems e Israel Aerospace Industries in forte espansione. Paesi occidentali, tra cui l’Italia, continuano a vendere e acquistare sistemi d’arma, alimentando un ciclo economico che trae profitto dalla guerra.
Gaza è diventata un laboratorio bellico, dove le armi vengono testate “in condizioni reali” prima di essere commercializzate. Questo meccanismo genera un evidente conflitto d’interessi per gli Stati che, pur dichiarandosi favorevoli alla pace, traggono vantaggi economici dalla prosecuzione delle ostilità.
Genocidio o strategia di mantenimento del conflitto?
Nel dibattito internazionale si parla spesso di genocidio, ma alcuni analisti sottolineano una dinamica più complessa. Israele non avrebbe interesse a sterminare completamente la popolazione palestinese, non solo per le implicazioni legali e morali, ma anche per motivi strategici. L’esistenza di un nemico permanente — visibile, organizzato, e mediaticamente riconoscibile — consente di giustificare operazioni militari, mantenere il consenso interno e alimentare il mercato delle armi.
Lo stesso discorso si applica a Hamas. Da anni Israele dichiara l’intenzione di “eliminare” il movimento, ma nonostante le operazioni militari e l’intelligence avanzata, Hamas continua a esistere e a operare. La domanda che molti si pongono è se Israele non riesca o non voglia davvero sradicare Hamas, perché la sua presenza garantisce un alibi costante per interventi armati e per la gestione securitaria della regione.
Questa logica di “conflitto controllato” — dove nessuna delle parti viene mai completamente annientata — alimenta un equilibrio instabile ma funzionale agli interessi economici e politici di attori esterni. La guerra diventa così non solo una tragedia umana, ma anche un meccanismo di profitto e di potere.
Una crisi che ci riguarda tutti
La situazione nella Striscia di Gaza non è solo una questione regionale. È il riflesso di un sistema globale che monetizza la guerra, paralizza la diplomazia e sfrutta la sofferenza umana. La ricostruzione, se non guidata da principi di giustizia e autodeterminazione, rischia di diventare l’ennesimo progetto di colonizzazione economica.
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