Spread USA in aumento: gli Stati Uniti trattati come un Paese emergente?
Un campanello d’allarme per l’economia globale
L’aumento dello spread verso i titoli di Stato tedeschi è una dinamica ben nota ai Paesi ad alto debito pubblico. In Italia, questo meccanismo è ormai familiare a investitori e osservatori, essendo spesso indicatore della fiducia – o della sfiducia – dei mercati nei confronti delle politiche economiche e della stabilità di un Paese. Quello che sorprende, però, è che oggi lo stesso meccanismo sembri coinvolgere gli Stati Uniti, la più grande economia del mondo.
Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, gli USA vengono ora percepiti dai mercati internazionali come “meno affidabili, più ostili e più isolati”. Un giudizio durissimo, che riflette un mutamento profondo nella percezione globale del rischio sovrano americano.
Il rifugio sicuro vacilla: crollano le borse, cede il dollaro
Tradizionalmente, in caso di turbolenze finanziarie, gli investitori internazionali si rifugiavano nei Treasury Bond americani e nel dollaro, considerati beni rifugio per eccellenza. Tuttavia, qualcosa sta cambiando: nelle ultime settimane si è verificato un crollo simultaneo delle borse e del biglietto verde, accompagnato da un’ondata di vendite di titoli di Stato statunitensi.
Il rendimento dei titoli di Stato USA è salito drasticamente, segnale di un aumento della percezione del rischio da parte dei mercati. Più alto il rendimento, maggiore il costo del debito per Washington. Ma le implicazioni non si fermano qui.
Stati Uniti come Regno Unito? Il rischio di una crisi bancaria sistemica
L’aumento dei rendimenti rappresenta un problema serio anche per il sistema bancario statunitense. Molte banche detengono grandi quantità di titoli di Stato nei propri bilanci. Se questi titoli perdono valore – come accaduto alla Silicon Valley Bank nel 2023 – possono emergere gravi squilibri patrimoniali.
La SVB fu travolta da una corsa agli sportelli quando, nel tentativo di far fronte alle richieste di liquidità dei depositanti, vendette titoli in perdita. Il valore di mercato delle obbligazioni era infatti sceso, erodendo la solidità della banca. Un meccanismo che oggi rischia di ripetersi su scala molto più ampia, con conseguenze potenzialmente devastanti.
Il caso ricorda da vicino l’episodio britannico del 2022, quando il piano economico della premier Liz Truss provocò un balzo nei rendimenti dei Gilt (i titoli britannici), costringendola alle dimissioni. Il Regno Unito fu “punito” dai mercati per le scelte fiscali avventate. Gli Stati Uniti godono certamente di un peso ben diverso nello scenario mondiale, ma neppure loro sono immuni dalle reazioni dei capitali globali.
Da guerra commerciale a guerra finanziaria
A complicare ulteriormente il quadro vi è la politica commerciale aggressiva della nuova amministrazione Trump. I dazi alla Cina hanno ormai superato il 100%, innescando tensioni senza precedenti tra le due potenze. Secondo il Financial Times, si sta passando dalla guerra commerciale a una vera e propria guerra finanziaria.
L’analista George Saravelos di Deutsche Bank ha affermato che “stiamo entrando in un territorio inesplorato nel sistema finanziario mondiale”. Una dichiarazione che non va sottovalutata: molti osservatori temono che la Cina possa utilizzare le sue riserve di Treasury USA come arma di pressione geopolitica.
Se Pechino iniziasse a vendere in massa i titoli americani, i rendimenti salirebbero ulteriormente, mettendo in difficoltà la Casa Bianca, la Fed e l’intero sistema finanziario occidentale.
Il ruolo della Fed e gli scenari futuri
Nel breve termine, il compito di stabilizzare i mercati spetta alla Federal Reserve, che potrebbe intervenire con operazioni straordinarie o tagli dei tassi per calmare le acque. Tuttavia, questo strumento potrebbe non essere sufficiente nel medio-lungo periodo.
Il vero nodo è politico: come ha sottolineato Saravelos, la sola via d’uscita strutturale potrebbe essere un cambio di rotta nella politica economica e commerciale dell’amministrazione Trump. Le attuali scelte, infatti, stanno erodendo la fiducia internazionale negli Stati Uniti come “porto sicuro”, minando alla base un pilastro dell’ordine finanziario globale.
Un equilibrio instabile
Il fatto che gli Stati Uniti vengano paragonati a un Paese emergente non è solo una provocazione giornalistica, ma un segnale concreto di un cambiamento di paradigma. I capitali globali stanno cercando nuove oasi di stabilità, mentre gli attori tradizionali – USA in primis – sembrano perdere centralità.
Le implicazioni sono enormi per le banche, gli investitori, le economie emergenti e persino per l’Europa, che dovrà ripensare la propria strategia economica in un mondo dove il “bene rifugio” per eccellenza non è più considerato tale.
L’Italia, con la sua lunga esperienza di alta volatilità e spread ballerini, osserva con attenzione. Forse, questa volta, non siamo noi i protagonisti della crisi. Ma di certo, come sempre, ne sentiremo gli effetti.
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